Più social meno tradizione: l’informazione diventa young

I social superano la tv, prima fonte di news per i giovani. Sempre più persone abbandonano i media tradizionali per informarsi sulla rete. Come l’avvento d’internet sta cambiando l’informazione.

Dal modo di fare acquisti a quello di mantenersi in contatto con parenti ed amici,nell’arco di poco più di dieci anni,l’esplosione della rete ha decisamente cambiato lo stile di vita di tutti noi. Se c’è un ambito in cui l’influenza del web ha avuto un impatto davvero epocale è quello dell’informazione: notizie, dati statistici, commenti politici, opinioni e approfondimenti non sono più prerogativa dei media tradizionali come televisione, radio e giornali, ma stanno sempre più velocemente lasciando lo spazio a nuove realtà d’informazione.

IL CROLLO DEI MEDIA TRADIZIONALI

La televisione, sebbene in declino, resiste come principale fonte di informazione, in un contesto però in cui la fruizione di notizie diventa sempre più crossmediale, e in cui acquista progressivamente più importanza l’online e l’utilizzo dei social network.
Il 20% degli americani ha letto le notizie sui social media, con un incremento del 2% rispetto al 2017, di contro i media stampati sono diminuiti dal 20% al 16% nello stesso periodo di tempo. Lo rivela una ricerca della Pew Research che ha intervistato 3425 cittadini statunitensi. Calano i media tradizionali ma è degna di nota la crescita dei siti di notizie online, da cui un terzo della popolazione americana riceve notizie.

Andando nel dettaglio e confrontando le fasce d’età del campione d’intervistati si scopre come le abitudini cambino radicalmente tra una generazione e l’altra.
Le persone più anziane si informano ancora attraverso la TV e la stampa, mentre i più giovani tendono ad informarsi sui social media come Facebook o Twitter.
L’81% degli americani dai 65 anni in su vede le notizie in TV, così come il 65% delle persone di età compresa tra i 50 e i 64 anni.

Evidente il calo della carta stampata, se il 40% degli over 65 legge ancora le notizie sui giornali, in tutte le altre fasce d’età meno del 18% si informa sulla carta stampata.

IL FENOMENO DELLE FAKE NEWS
Lo studio realizzato porta ad uno spunto di riflessione: è evidente che i giovani, usando i social media come principale fonte di aggiornamento delle notizie, sono sottoposti ad un nuovo modo di fare informazione, caratterizzata molto spesso da superficialità e scarsa qualità. E se ciò non è abbastanza, è doveroso non sottovalutare la diffusione delle fake news, fenomeno tutto digitale in cui notizie false vengono create ad hoc per influenzare l’opinione pubblica. Verificare le notizie, affidandosi a siti autorevoli conosciuti come fonte d’informazione attendibili sono le uniche armi che i giovani hanno a disposizione per difendersi da tutto ciò.

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Informazione 2.0: le notizie viaggiano sui social

Con l’esplosione dei social media e degli smartphone, il concetto di informazione è totalmente cambiato ridimensionando l’importanza dei media tradizionali, che oggi fanno sempre più fatica a mantenere un posto nell’attenzione dell’utente.

La maggioranza degli utenti, soprattutto giovani, si informa sul web se non addirittura sui social network a cui viene data una autorevolezza spesso poco in linea con l’effettiva qualità dell’informazione come conferma anche uno studio di Gallup e della Knight Foundationhttps://knightfoundation.org/ del 2018.

Tutto quello che passa dai social viene dato per vero, spesso senza neanche verificare le fonti. Da qui le fake news, fenomeno non del tutto nuovo ma che con i social sono arrivate a livelli preoccupanti.

Cosa dicono le ricerche

Una ricerca della Pew Research ha intervistato un campione di 3.425 cittadini statunitensi e dallo studio sono emersi dati interessanti ma probabilmente prevedibili.

Dai dati raccolti dall’Istituto di ricerca è emerso che il numero degli americani che leggono notizie online dal 2016 al 2018 è aumentato del 2% mentre gli stessi media stampati sono diminuiti del 4% nello stesso periodo.

Nonostante le numerose primavere, la radio si mantiene stabile al 25/26% dal 2016 al 2018.

La TV rimane la maggiore fonte di informazione anche se passa dal 57% al 49% degli utenti che si diluiscono tra TV locale (37%), TV via cavo (30%) e tv nazionale (25%).

Acquista importanza anche lo streaming con il 9%, ma gli utenti di questo gruppo seguono anche trasmissioni e Tv via cavo (74%).

Sono in aumento i siti di notizie online che inviano aggiornamenti sull’attualità al 33% degli utenti americani, un ­aumento del 5% rispetto al 2016.

Ad ognuno il suo

Per quanto riguarda le fasce d’età, la popolazione adulta 50 -64 anni e gli over 65, tende a preferire la Tv e la stampa come fonte primaria di informazione mentre i più giovani nella fascia d’età 18- 29 anni, come accennato in precedenza, preferiscono aggiornarsi sui social media.

I siti di notizie veri e proprio hanno divisioni meno nette. Infatti dal campione intervistato, il 42%  nella fascia 30-49 anni dichiara di leggere da web e app. Mentre i giovani dai 18 ai 29 anni hanno dichiarato di informarsi, il 27% dai social media, il 16% dalla TV, il 13% dalla radio e il 2% dalla carta stampata.

In entrambe le fasce d’età gli utenti hanno dichiarato di utilizzare più piattaforme per ottenere informazioni.

Elaborazione libera, a scopo didattico, dell’articolo pubblicato sul numero 81 della Testata Digitalic.

1976-1980: rivoluzione dell’elaborazione digitale dei testi

Ci sono voluti quattro anni per scrivere la rivoluzione dell’elaborazione digitale dei testi.
Quattro anni durante i quali la produttività e il lavoro d’ufficio sono stati investiti dall’onda lunga dell’evoluzione tecnologica in materia di sviluppo di software di scrittura, arricchendosi in ogni aspetto.

1976: nasce Electric Pencil

Il “C’era una volta…” coincide con il 1976, anno in cui Micheal Shrayer assemblò quasi per gioco un processore Altair 8800, sfruttando solo il suo estro creativo e un kit di strumenti elettronici; non soddisfatto, Shrayer realizzò Electric Pencil, quello che viene considerato il primo processore di elaborazione testi progettato per un computer. Una svolta epocale in campo informatico, che contribuì all’evoluzione e alla facilitazione del lavoro di svariate categorie di artigiani della parola, come lo scrittore Jerry Pournelle, che fu il primo a scrivere e pubblicare una porzione di libro, utilizzando un software di elaborazione testi – Electric Pencil, per l’appunto.
Nel 1983, la creatura di Shrayer venne premiata e inserita nella 80 Micro Hall of Fame.

WordStar, la stella di Rubinstein

Soltanto due anni dopo l’esordio di Electric Pencil, il mercato digitale conobbe WordStar. La mente dietro questo nuovo elaboratore di scrittura fu Seymour Ivan Rubinstein, fondatore della MicroPro International Corporation, considerato tutt’oggi un pioniere dell’industria dei software. WordStar divenne popolare nel microuniverso informatico per la sinergia con i sistemi operativi CP/M e Dos, arrivando ad abbracciare, più tardi, anche i sistemi Microsoft Windows. L’elaboratore di Rubinstein, originariamente progettato per funzionare con dispositivi di visualizzazione di caratteri non grafici, dotati di un unico carattere tipografico, si focalizzava interamente sulla porzione di testo, visualizzandolo direttamente sullo schermo del terminale; WordStar si impossessò in breve tempo del mercato, facendo leva su un prezzo decisamente alla portata e grazie alla propria semplicità di fruizione; tra le sue caratteristiche più innovative, l’introduzione di combinazioni di tasti per snellire svariati passaggi di scrittura.

Dalle “stelle” a WordPerfect: l’innovazione di Bastian e Asthon

Fin quando, nel 1980, il palcoscenico digitale accolse un nuovo protagonista: WordPerfct – altisonante già dal nome – il rivoluzionario e futuristico elaboratore di scrittura progettato da Bruce Bastian e Alan Ashton, fondatori della Satellite Software International Inc., rinominata in seguito, WordPerfect Corporation. Dopo anni spesi a lavorare in team, alla ricerca del loro personale Santo Graal, Bastian e Asthon realizzarono WordPerfect, innovativo elaboratore di scrittura, concepito inizialmente in linguaggio d’assemblamento della DEC – una delle industrie major dello sviluppo dei computer -, per poi essere convertito per i dispositivi di marca IBM.
Adatto per l’implementazione di nuove funzionalità, WordPerfect prese il posto occupato da WordStar, già dai primissimi anni Ottanta. Va accreditato a Bastian e Asthon il “merito” di aver trasformato le attitudini di mercato dei software per l’elaborazione dei testi in un grande ciclo di business.

Verso un nuovo Big Bang…

La storia dei software di scrittura non si è fermata di certo a WordPerfect. Il mondo è andato avanti e l’evoluzione digitale con esso. Il nuovo Big Bang avvenne nel 1993, quando il Cern – l’Organizzazione europea per la ricerca nucleare – concesse l’uso del neonato World Wide Web a chiunque, senza la necessità di dover pagarne i diritti, spingendo il web verso nuovi e interminabili confini, lontano dalla propria e limitante origine di natura “accademica”.
Ma questa, sì, è tutta un’altra storia…

(elaborazione libera a scopo didattico dell’articolo pubblicato sul numero 81 della Testata Digitale)

La rivoluzione nell’elaborazione testi

Con l’introduzione nelle aziende dei computer cambia il modo in cui si producono i documenti, si passa infatti dalla macchina da scrivere al software di elaborazione testi. In quarant’anni sono state fatte magie.

Dalla dattilografia alla videoscrittura

Il periodo a cavallo tra il 1970 e il 1980 ha visto un cambiamento radicale nel mondo aziendale per quanto riguarda la velocità di produzione dei documenti. Tutto merito dei personal computer introdotti negli uffici con cui è stato possibile utilizzare programmi di videoscrittura.

In quegli anni cambiarono quindi le competenze richieste agli impiegati o aspiranti tali, niente più dattilografi ma i primi videoterminalisti. La flessibilità, di cui oggi si parla tanto, è sempre stata richiesta sul lavoro e lo possono testimoniare chi, della precedente generazione, ha vissuto i primi software di elaborazione testi.

Storia dei software di elaborazione testi

  • Electric Pencil è il nome del primo word processor ideato nel 1976 da Michael Shrayer per il microcomputer Altair 8800.
  • WordStar è invece il successivo applicativo progettato nel 1978 e decisamente più completo rispetto al precedente. Negli anni successivi riuscì ad avere una larghissima diffusione sui mercati, grazie alla capacità di funzionare sui diversi sistemi operativi che man mano venivano realizzati, CP/M, Dos, Microsoft Windows. Il nome WordStar è stato proprio di buon auspicio per questo applicativo, per lo meno fino all’avvento dei dispositivi grafici, basandosi infatti su un unico carattere tipografico non permetteva le formattazioni.
  • E’ così che arriva a metà degli anni Ottanta il WordPerfect, applicativo in grado di formattare i testi e che per questo motivo sostituisce completamente il precedente programma. La filosofia con cui è stato progettato il WordPerfect ha reso i software di elaborazione testi una grande fonte di guadagno.
  • Ovviamente tutto cambia a metà degli anni Novanta con la diffusione del World Wide Web e dei relativi software per l’elaborazione di testi con tutte le funzionalità a cui oggi siamo abituati.

C’era una volta la macchina da scrivere

Sono passati poco più di quarant’anni dalla nascita del primo programma di elaborazione testi, sono tanti? Dipende dai punti di vista. Certo, se si considera cosa si può fare oggi con i programmi di videoscrittura, l’Electric Pencil sembra il protagonista di una storia di quelle che iniziano con “C’era una volta”. E’ interessante comunque far conoscere alle nuove generazioni questo breve racconto, per fargli rendere conto che non tutti sono nati digitali, che c’è stato un tempo in cui non esistevano i computer, le lettere si scrivevano con la macchina da scrivere. Un mezzo con cui produrre documenti e con cui, per scrivere in copia, si usava la carta carbone. Già quell’oggetto sconosciuto che macchiava fogli e mani ma che faceva risparmiare tanto tempo, almeno secondo la concezione di tempo degli anni Settanta.

Elaborazione libera, a scopo didattico, dell’articolo pubblicato sul numero 81 della Testata Digitalic.

Innovazione Digitale Italia: il futuro è ora, ma manca la formazione

Si è svolto a Capri dal 3 al 5 ottobre il Digital Summit organizzato dalla multinazionane britannica EY, che tra i tanti temi trattati, ha toccato anche quello del livello di digitalizzazione delle imprese italiano. A tal proposito i lavori del convegno sono stati anticipati dal sondaggio Ipsos, commissionato proprio da EY, che ha messo in campo un indagine svolta sia tra le aziende, sia tra i cittadini.

La situazione tra i cittadini nel nostro paese

I risultati di questo sondaggio sono confortanti per quanto riguarda il livello di progresso raggiunto nel campo della digitalizzazione delle imprese, ma sicuramente da implementare. Il sentiment tra i cittadini italiani è sicuramente positivo, infatti il 78% della popolazione e il 72% dei lavoratori, guardano alla digitalizzazione come un passo in avanti positivo e importante da effettuare per le aziende del nostro paese.
L’italia però rispetto all’Unione Europea risulta sempre in ritardo per quanto riguarda gli accessi quotidiani ad internet; mentre nel nostro paese la percentuale dei cittadini che si connettono al web è del 69%, nel resto dei paesi europei è dell’81%. Infine, su questo argomento, si stima che tre famiglie italiane su dieci ancora non posseggono una connessione internet.

La situazione tra le aziende

Per quanto riguarda le aziende, la digitalizzazione non viene più percepita come un rischio. Il nostro Paese, come al solito, risulta spaccato in due ma non nettamente come ci si aspetterebbe. A guidare il treno della digitalizzazione italiana infatti sono le regioni a vocazione industriale – Nord est, Lombardia ed Emilia Romagna – con il 42% di crescita nei progetti di trasformazione digitale; subito dietro si posiziona il resto del nostro Paese, con il 38% di digital innovation. L’incremento di questa attività risulta da due fattori dell’indagine: il primo è l’andamento registrato dagli investimenti delle aziende nelle spese delle piattaforme cloud, volume pari a circa il 6-7%, ovvero il doppio della media Ue; inoltre altri investimenti sono stati pianificati dalle aziende nei settori di Konwledge Sharing Platform & Network (53%), Internet of Things (35%) e 5G (18%). Il secondo fattore di incremento della digitalizzazione si evince dal fatto che il 47% delle imprese italiane ha fiducia che nei prossimi dodici mesi l’andamento dell’economia sia positivo.

I dati risultanti dell’indagine EY – Ipsos.

Digitalizzazione si, ma serve il personale specializzato

Il nostro paese dunque è in fase di digitalizzazione e questa è sicuramente un’ottimo riscontro per coloro che vogliono investire nelle aziende italiane. Il tema da porre ora in manera decisa è quello della formazione. L’indagine Ipsos infatti ha registrato il divario presente tra le skill necessarie richieste a coloro che dovrebbero occuparsi di questa mansione e le capacità realmente presenti ad oggi nelle aziende. Solo un terzo delle aziende (il 35%) sottoposte all’indagine infatti reputa che le competenze tecnologiche adeguate a questo aggiornamento digitale siano disponibili all’interno della propria impresa. Nel settore manifatturiero, dove questa innovazione forse darebbe i suoi maggiori frutti, il divario aumenta addirittura fino al 50%. Le competenze di cui le aziende deficitano sono essenzialmente quelle relative alla comunicazione, alla negoziazione, al teamwork e alla leadership. Inoltre un terzo delle aziende lamentano mancanza di formazione anche su Data Management, Social Media Management e Digital Marketing.

Il prossimo futuro

Le nostre aziende dunque non hanno più paura della digitalizzazione, lo studio Ipsos ha fotografato una realtà italiana che ha voglia di svecchiarsi e di aggiornare il proprio tipo di industria; finalmente le imprese italiane hanno iniziato a comprendere e a capire i vantaggi che l’era digitale ha da offrire a qualsiasi tipo di attività imprenditoriale.

Infine, se il focus del Summit di quest’anno dunque è stato fotografare questa rinnovata realtà italiana, «l’anno prossimo lavoreremo su cosa fare per accelerarla», anticipa Donato Iacovone, Ceo di EY Italia.

Elaborazione libera, a scopo didattico, dell’articolo pubblicato sul numero 81 della Testata Digitalic.

Password per smemorati …. la felicità degli hacker.

La sicurezza online degli utenti è determinata in buona parte dal creare password non facilmente individuabili . La tentazione di utlizzare password facili da ricordare però, da quanto risulta da una ricerca effettuata da Splash Data, sembrerebbe avere la meglio sulla paura di correre rischi .

Dalle ultime ricerche svolte infatti risulta che negli ultimi cinque anni le password più facili da individuare sono molto utilizzate .

Le password piu comuni da evitare

Mettere i numeri in sequenza dall’uno al sei ,password individuabile anche dall’hacker piu incompetente , nonostante sia sconsigliatissima viene ancora utilizzata . Usare questa password è come lasciare la porta di casa aperta con la speranza che non entrino i ladri e non è la sola che si dovrebbe evitare. La ricerca svolta prevalentemente sul territorio del Nord america e dell’Europa occidentale analizzando cinque milioni di parole.

È emerso dalla ricerca che il dieci per cento della popolazione ha scelto una delle venticinque password più rischiose degli ultimi anni. Tra le peggiori password attuali ci sono i nomi inflazionati di Daniel,Thomas e Hannah da evitare ma anche i nomi dellle squadre di basket piu famose come i Lakers o parole gettonatissime come cookies e banana.

Come tutelarsi per evitare problemi online

I consigli che vengono dati più frequentemente agli utenti online, per arginare i pericoli ,sono di evitare password troppo brevi e di utilizzare almeno dodici caratteri e contenere combinazioni di lettere simboli e numeri difficili da individuare. Se questi consigli verranno ascoltati si verificherà il prossimo anno, per ora i pirati viaggiano a gonfie vele su internet conquistando facili bottini.

Elaborazione libera a scopo didattico dell’articolo pubblicato sul numero 81 della testata digitalic

L’elaboratore di testi che ha fatto la storia



Alla fine degli anni 70’ e 80’, con lo sviluppo dei software per comporre testi al pc, iniziò una rivoluzione nella video scrittura, gemellata con il personal computer

Word Wide Web

Era la metà degli anni 90’, quando inizia ad apparire il World Wide Web, rivoluzionando il mondo del lavoro e non solo.
Prima negli uffici per una produttività ancora più rapida, l’elaborazione di testi era l’applicazione prevalentemente utilizzata per il personal computer.

Da Michael Shrayer a WordStar

Nel dicembre del 76’, il primo software Word processor  è stato Electronic Pencil, progettato appositamente per un microcomputer come l’Altair 8800. Partorito da Michael Shrayer, il mercato è stato lieto di accogliere il suo prodotto addirittura due anni in anticipo, al contrario di WordStar (rilasciato nel 1978), sicuramente più completo ed elaborato.
I possessori di computer con sistemi operativi: CP/M, Dos, e Microsoft Windows, hanno potuto usufruire di software di elaborazione testi, così ebbero da subito popolarità. Fra i più rinomati programmi di videoscrittura della metà degli anni 80’, il nome che spiccava più di tutti era WordStar.

L’entrata di WordPerfect nel mercato

Questo programma era stato originariamente impostato per funzionare con dispositivi: di visualizzazione non grafica, dotati di un solo carattere tipografico, il focus andava sul testo, appariva sullo schermo e senza formattazione. Nel mentre, c’era un altro programma in porto, quando è stato avviato, l’allievo supera il maestro e WordPerfect rimpiazza il suo predecessore WordStar, stabilendo così il suo fine carriera.
Grazie alle migliorie apportate, per comporre, modificare o formattare testi, tutto ciò che prima era impensabile e necessario diviene lo standard per i Dos degli anni 80’.
I software di elaborazione testi divennero cosi grandi business.

“Elaborazione libera a scopo didattico, dell’articolo pubblicato sul numero 81 della testata Digitalic”

Digital Manager: professione 4.0

Competenze 4.0

Le ricerche di nuovo personale da assumere sono indirizzate verso dei profili professionali che abbiamo delle competenze 4.0, adatte alla nuova trasformazione del mercato del lavoro. Il 30% delle aziende ha intenzione di avviare o ha già iniziato dei percorsi di formazione per le risorse umane presenti in organico.

Digital Manager

Nei promessi mesi, il sistema camerale determinerà un metodo di attestazione delle skill dei digital manager, delle figure qualificate che saranno in grado di aiutare le aziende in questo processo.

Saranno in grado di: assicurare all’impresa lo sviluppo culturale e la diffusione del pensiero innovativo in chiave 4.0, gestire il coordinamento strategico ed operativo di ogni iniziativa progettuale di digital transformation e facilitare il business networking sostenendo il coinvolgimento dei centri di competenza e dei Digital Innovation Hub.

“le tecnologie rappresentano un fattore strategico per le piccole imprese, ma c’è bisogno di intervenire in maniera tempestiva”.

Giuseppe Tripoli, segretario generale di Unioncamere
Dati che riguardano la formazione dell'impresa 4.0

Elaborazione libera, a scopo didattico, dell’articolo pubblicato sul numero 81 della Testata Digitalic.

Digital Innovation: la digitalizzazione parte dalle aziende

Le aziende italiane sono fiduciose: la digitalizzazione, nonostante non sia ancora al livello degli standard europei, ha un andamento positivo. All’interno del vasto panorama delle aziende italiane, l’obiettivo della digitalizzazione e dell’innovazione digitale è alla base di tutti gli investimenti previsti per il futuro. Nell’articolo verranno analizzati i dati degli investimenti già effettuati e delle tematiche relative alle competenze personali degli operatori del settore. La rassegna delle digital transformation già effettuate e di quelle previste per il futuro concluderanno l’analisi, che ha le sue basi nella ricerca Ipsos per Ey, Istat, del 2017.

La ricerca

Analizzando i dati raccolti da Ipsos su un campione di circa 900 italiani fra i 16 e i 70 anni (ricerca effettuata per EY e Istat, 2017) è emerso come l’innovazione digitale effettuata dalle aziende non sia percepita come una operazione rischiosa e che, anzi, sia uno degli obiettivi più importanti perseguiti dalle aziende per gli anni che verranno. I numeri proposti dalla ricerca evidenziano come la crescita degli investimenti nelle Ict si sia diversificata in diversi ambiti tecnologici: si parte dall’area della sicurezza informatica che tocca circa il 45% degli investimenti, arrivando fino al 28% per quanto riguarda la progettazione di applicazioni per il web e per i dispositivi mobili.

Digitalizzazione e imprese: un obiettivo da perseguire con positività

Al contrario di quanto si possa pensare, il livello di innovazione digitale perseguito dalle aziende è ancora molto basso in tutta la penisola, in particolar modo per quanto riguarda le piccole imprese. Al contrario, nelle aziende più grandi, l’intento innovativo è più perseguito, arrivando a livelli di digitalizzazione alti o molto alti. Il divario fra i vari livelli di digitalizzazione non riguarda solo la grandezza delle imprese ma include anche la variabile geografica: infatti, soprattutto nelle regioni italiane con uno spirito industriale più elevato (regioni del Nord-Est, Lombardia ed Emilia Romagna) la nascita dei progetti di innovazione digitale è molto più elevata, raggiungendo picchi del 42% contro il 38% delle restanti regioni italiane.

I dati analizzati hanno evidenziato come, nel 2017, la media italiana di connessioni al web sia ancora più bassa rispetto alla media europea: è emerso come solo il 69% della popolazione italiana si connetta al web quotidianamente rispetto all’81% registrato negli altri paesi dell’UE.

Le skill e il gap esistente

Dai dati dei dipendenti delle aziende è emerso come le skill necessarie e quella effettivamente appartenenti ai lavoratori siano discordanti con le nuove necessità che derivano dall’implementazione delle tecnologie: infatti, solo nel 35% dei casi, le aziende considerano le competenze possedute dai propri lavoratori come adeguate alle necessità produttive e di innovazione dei servizi. Il dato sembra peggiorare per quanto riguarda le aziende appartenenti al settore manifatturiero: infatti il divario tra esigenze professionali e skill possedute si amplia e raggiunge quasi il 50%. Le competenze che devono essere rafforzate riguardano soprattutto i settori della comunicazione, del teamwork, delle negoziazioni e delle professionalità inerenti alla leadership e al managementCollegata a questa situazione di formazione professionale, circa un’azienda su tre riscontra una carenza nei settori del Social Media Management , del Digital Marketing e del Data Management.

I numeri inerenti alla formazione professionale non rispecchiano l’attuale carenza di skill del personale evidenziate nella ricerca Ipsos: infatti solo il 30% delle aziende ha al proprio interno un settore dedicato alla formazione del personale attraverso una academy interna all’azienda, senza tener conto che quasi il 63% delle aziende sia legato a università e centri di formazione.

La situazione italiana e l’UE

Nonostante i dati siano discordanti tra la situazione italiana e gli standard europei, le aziende hanno comunque programmato nuovi investimenti infrastrutturali che creeranno nuovi posti di lavoro e nuove figure lavorative, che dovranno sviluppare nuove competenze e attitudini. Infatti, i dati esposti fanno prefigurare un andamento positivo dell’economia, soprattutto grazie alla positiva disposizione delle aziende a perseguire investimenti in numerosi ambiti che riguardano la sfera digitale. Tutt’oggi le aziende si sono concentrate, oltre che sulla sicurezza informatica e sulla progettazione di app, anche sugli investimenti su social media, sulle vendite online, sull’IoT (internet of things), sull’analisi dei Big Data e sulla Robotica.

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Dati sugli investimenti effettuati dalle aziende nell’ambito della digital innovation

I settori in cui è prevista una maggiore crescita grazie alla digitalizzazione sono: Knowledge Sharing Platform e Network, ampliamento delle piattaforme Cloud, Internet of Things e tecnologia di connessione 5G.

Appare chiaro come non basti  investire solo in hardware per attuare una digital transformation che porti nella giusta direzione, ovvero quella della digitalizzazione, colmando però i gap esistenti nella popolazione italiana. 

Per avere più informazioni e dettagli, si consiglia la lettura dell’articolo presente sul Corriere delle Comunicazioni. 

Elaborazione libera, a scopo didattico, dell’articolo pubblicato sul numero 81 della Testata Digitalic

 

 

Password tabù: la classifica delle keyword da non utilizzare

La perdita di dati ormai è di moda e anche per il 2018 è accaduto.
Il fattore comune è l’ utilizzo di keyword poco elaborate e molto semplici che la maggior parte delle persone utilizzano per la creazione del loro account online.
Tra le prime due parole più diffuse come peggior scelta dell’ ultimo quinquennio sono “123456” e “password”, ma non sono le uniche, infatti spopolano “1111111”, “sunshine”, “princess”,”666666”, “654321” e alla 23ima posizione “donald”.

Morgan Slain, Ceo di SplashData ci ricorda che:

Gli hacker hanno grande successo quando usano nomi di celebrità, termini della cultura pop e dello sport e schemi di tastiera semplice da inserire negli account online, perché sanno che molte persone scelgono queste combinazioni facili da ricordare.

Il suo consiglio è di non usare quindi frasi semplici come i nomi di persona (daniel, hannah, thomas,..) né di oggetti (banana, cookie…), tanto meno gli anni di nascita.

La Top Ten delle peggiori password

SplashData pubblicando questa classifica ogni anno tenta di responsabilizzare le persone a proteggersi online, visto i rischi del web dovrebbe essere fisiologica una protezione “blindata” del proprio account, ma non è così. E’ stato stimato che quasi il 10% delle persone ha utilizzato una delle 25 password della lista e il 3% quelle peggior in assoluto.

I dati utilizzati per il report sono stati estrapolati dalle cinque milioni di parole usate dal Nord America ed Europa occidentale.

Quindi alzi la mano, chi di noi almeno una volta per svogliatezza o fretta ha usato una delle password incriminate? Certo che può accadere almeno una volta, ma a che costo?

I rischi sono alti, l’ utilizzo di queste password così banali mette in serio pericolo la sicurezza dei nostri dati personali e dell’ identità virtuale, oltre a rendere accessibili i numeri di carte di credito o del conto in banca.

Cosa fare quindi per proteggersi?

Su consiglio di SplashData: password di almeno 12 caratteri, che contenga almeno un mix di lettere, numeri e simboli, questo a protezione standard.

Per maggiore sicurezza ogni servizio dovrebbe avere una chiave d’accesso diversa ed in ogni caso utilizzare un’ app di gestione per archiviare tutto, generare sequenza casuali e accedere automaticamente ai siti web.

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